LE RELAZIONI DEL VESCOVO FISICHELLA E DI PADRE ANTONELLO AL CONVEGNO DI ROMA

L’Enciclica «Deus caritas est» e il carisma vincenziano

di Gianfranco Grieco

 

Era duplice l'intento del Convegno nazionale della famiglia vincenziana in Italia sull'Enciclica «Deus caritas est» cre (Roma 20-21 gennaio 2007): risentire il gusto della carità attraverso l'insegnamento vivo della Chiesa, riproposto da Papa Benedetto XVI e la testimonianza di chi ha fatto della carità il cuore della propria vita: e il centro della propria conversione a Cristo; e, in secondo luogo, favorire il sentimento di appartenenza all'unica famiglia nata dal carisma vincenziano per ridestare nelle coscienze la gioia dell'unità, quale segno concreto dell'amore di Cristo risorto che vive tra i poveri ai quali si presta quotidiano servizio. Nella fedeltà a questo duplice intento sono state presentate ai convegnisti due relazioni. La prima del Vescovo Rino Fisichella, Vescovo Ausiliare Roma, e Rettore della Pontificia Università Lateranense; la seconda del Padre Erminio Antonello, Visitatore dei Missioneri di san Vincenzo della Provincia di Tonno.
Il Rettore Mons. Fisichella svolgeva la prima relazione dal titolo: «La prospettiva teologica dell'Enciclica. Deus caritas est». Del documento di Papa Benedetto XVI, Mons. FisicheIla offriva una lettura teologica alta e profonda insieme, partendo dallo «scenario», per poi presentare una «chiave interpretativa». Dalla riflessione «un amore che nutre» il Presule passava alla «valenza culturale dell'Enciclica».
«L'amore di Dio per noi è questione fondamentale per la vita e pone domande decisive su chi è Dio e chi siamo noi». Riprendeva questo passo della Deus caritas est, 2, Mons. Fisichella per ricordare come «l' espressione posta all'inizio di Deus caritas est può diventare sintesi dell'insegnamento di Benedetto XVI non solo intorno al tema fondamentale dell'amore, ma anche riguardo l'identità stessa del vivere sociale, politico e culturale. Esso costituisce il fondamento su cui costruire la vita, ma nello stesso tempo, può diventare punto nevralgico intorno a cui interpretare l'esistenza personale». L'amore - proseguiva – è «scoperta di sé e forza propulsiva per la propria progettualità; senza amore, si vivrebbe nel .dramma della solitune. Un suo fraintendimento, tuttavia, rinchiuderebbe l'uomo in un'illusione autodistruttrice. Niente come l'amore, quindi, provoca a riflettere sulle domande fondamentali che ruotano intorno al senso della vita e al suo significato profondo».
Nel presentare la sua chiave interpretativa, Mons. Fisichella rilevava come la Deus caritas est, anche se «direttamente non nomina il relativismo e le sue posizioni, a più riprese contesta questa ideologia e risponde con argomenti di profonda speculazione e con la forza dell'esperienza alle obiezioni che ne stanno alla base. In primo luogo, emerge il fatto di riportare all'unità profonda la persona, senza lasciarla in balia di un dualismo infausto e poco convincente sul piano esistenziale». Continuava così, Mons. Fisichella, l'analisi del testo e la proposta-diagnosi: «Se il corpo viene esaltato oltre ogni, limite e viene, assolutizzato cade facilmente nel diventare oggetto del mercato, qualcosa che si può "comperare e vendere" a piacimento. Il degrado dell'uomo in questa prospettiva non è solo identificabile nel suo diventare "merce", ma soprattutto nel rinunciare di fatto alla sua libertà.
Solo nella misura in cui si confronta con la verità, infatti, egli può avere dinanzi a sé lo spazio reale per compiere scelte significative che siano cariche di libertà e degne di essere compiute.
Su questo aspetto, il valore culturale che le pagine dell'enciclica rivestono va al di là dell'interesse dei soli credenti per abbracciare quanti hanno a cuore la salvaguardia dell'identità culturale».
Altro problema affrontato dal Vescovo Fisichella era 1'«amore per sempre», Questa dimensione esplicitava, di fatto, la tematica precedentemente da lui toccata, Possiamo accettare che «Dio è amore» (1 Gv 4, 16) - spiegava-. Ciò rivela la sua stéssa vita intratrinitaria e quindi la sua essenza. In questo senso, che in sé Dio sia amore rende anche comprensibile che questo sia per sempre"; in Dio non c'è scorrere del tempo, ma l'eterno presente. Il problema, tuttavia, nasce nel momento in cui egli si incarna e chiede ai suoi discepoli di amare come lui ha amato: dando la vita (cfr Gv 15, 13)».
Questo amore - spiegava ancora - «trova la sua forma di realizzazione più coerente nell'offerta che Gesù fa di sé sulla croce. Ancora una volta si ritorna al mistero pasquale come espressione culminante della rivelazione. E qui che il “per sempre” dell'amore assume il suo significato più pieno». Se infatti, l'amore fosse relegato al sentimento, durerebbe solo un istante; sarebbe legato allo scorrere impetuoso e inevitabile del tempo e, quindi, saremmo tutti costretti a seguirlo nella sua corsa verso la fine. Se l'amore, invece, viene unito al mistero pasquale, allora esso permane con la carica di andare oltre il tempo in forza del superamento posto in essere dalla risurrezione. Solo l'amore alla luce dell'Eucaristia e intimamente legato ad essa, è «per sempre». Se l'agape non fosse eucaristico - spiegava ancora Mons. Fisichella - «non avrebbe in sé la forza di superare il tempo e rimarrebbe sottoposto alla frammentarietà del momento». E citava in proposito Benedetto XVI: «Diventiamo «un solo corpo», fusi insieme in un'unica esistenza… da, ciò si comprende come agape sia diventata, anche un nome dell'Eucaristia: In essa l'agape di DIO viene a noi corporalmente per continuare il suo operare in noi e attraverso di noi. Solo a partire da questo fondamento cristologico-sacramentale si può capire correttamente l'insegnamento di Gesù sull'amore» (n. 14). L 'Eucaristia - sottolineava ancora - «permette di compiere gesti che superano la capacità personale per immettere in uno spazio, di trascendenza che offre la possibilità di andare oltre lo scoglio del tempo. Amando in maniera eucaristica, l'amore rimane per i sempre" perché porta in sé la .caparra" di quanto verrà offerto con la nuova vita della risurrezione.
L' agape di cui Benedetto XVI parla non è relegato nella sola sfera dell'amore sponsale né a quello dell'amicizia o della relazionalità; è un amore che si apre ed estende verso tutti, proprio perché fondato sull'amore di Dio che nessuno esclude.
Benedetto XVI - rilevava Mons. Fisichella - non ha timore di affrontare l'oscuramento che una cultura  non coerente, può dare dell'amore: «il modo di glorificare il corpo, a cui oggi assistiamo, è ingannevole. L'eros degradato a puro «sesso» diventa merce,una semplice «cosa» che si può comprare e vendere. L'eros diventa merce, ed anzi l’uomo stesso diventa merce…L’apparente glorificazione del corpo può ben presto convertirsi in odio verso la corporeità» (n. 5). Se si vive di questa dimensione, presto o tardi subentra la delusione, l'amarezza e l'odio prende il posto del rispetto e dell'amore. Una cultura che intende crescere nella sfera della corretta relazionalità ha bisogno di ritrovare una sana espressione della corporeità e su questo innestare stili di vita che esprimono il dono di sé e non il possesso individualistico. E continuava riprendendo il testo del Papa: «La Chiesa non può non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche rimanere ai margini nella lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per via dell'argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e prosperare» (n. 28). Come si nota vi è un secondo fatto concreto che impegna non solo il singolo credente, ma l'intera comunità: l'Impegno per la giustizia. Benedetto XVI, nel momento in cui immette chiara e ferma la distinzione tra i due ordini - civile e religioso - offre, una duplice riflessione: l'argomentazione razionale, come forma universale mediante cui si può collaborare senza separarsi per via di identità differenti e la forza della spiritualità, come peculiare affermazione della fede. L'una e l'altra considerazione portano a verificare un'idea centrale: la caritas quaerens intellectum.
Più volte, nel corso dell'Enciclica Papa Benedetto fa riferimento alla forza della ragione e alla sua capacità di argomentare. Questo significa che una ragionevole comprensione dell'amore non allontana dall'amore, ma al contrario immette in una sua più coerente comprensione e ne permette la forza della comunicazione. Dove non può arrivare la ratio, per il carattere pienamente misterico dell'amore, là può giungere la forza della preghiera come forma della communio con Dio - annotava ancora il Vescovo Fisichella - Si riscontrano non solo principi con riferimenti teologici, ma culturali, pratici e di stili di vita concreti che non possono essere sottovalutati. Deus caritas est - concludeva - ha «una profonda valenza evangelizzatrice che senza rinunciare al fondamento da cui deriva, si apre con le sue argomentazioni a quanti hanno il desiderio di conoscere la verità e di fare dell' agape una compagna di vita inseparabile per dare senso definitivo all'esistenza». L'Enciclica «rappresenta per noi vincenziani una miniera da esplorare continuamente per tenere vivo il nostro modo di operare nella carità». Era questa la conclusione della seconda relazione tenuta da Padre Erminio Antonello, visitatore dei Missionari di san Vincenzo della Provincia di Torino. «Anche l'attività caritativa si può corrompere - rilevava lo studioso vincenziano – Il Papa ci aiuta a riprendere in mano le coordinate della nostra vocazione e a rinnovarci. Senza un cambiamento interiore, rileggendo la carità alla luce della fede, non possiamo fare molta strada nell'esercizio della carità. Questa Enciclica è come la Magna Carta per la nostra vocazione vincenziana». Le testimonianze di padre Matteo Tagliaferri della Comunità Incontro di Trivigliano e di Giovanna Giuggia, volontaria vincenziana di Mondovì, sottolineavano in modo vivo e concreto il rapporto strettissimo esistente tra carisma vincenziano e testo di Benedetto XVI.

(da L'Osservatore Romano, Mercoledì 24 Gennaio 2007)
SEGRETERIA DI STATO Dal Vaticano, 1 febbraio 2007

 

 

Reverendo Padre,
mi riferisco alla stimata lettera del 24 gennaio u.s., con la quale Ella, nel portare nuovamente alla conoscenza di Sua Santità Benedetto XVI il recente Convegno nazionale della Famiglia Vincenziana sul tema "L'amore è possibile", ispirato all'Enciclica Deus caritas est, ha voluto confidarGli il proprio dispiacere e quello dei numerosi partecipanti per il Suo mancato saluto, dopo l'Angelus di domenica 21 s.m.

Riconoscente per il gesto affettuoso di devozione e per i pensieri di stima e di adesione al Suo ministero che lo hanno suggerito, il Sommo Pontefice desidera far giungere ora l'espressione del Suo vivo apprezzamento per l'ispirazione evangelica da cui è animato codesto benemerito Sodalizio e per la preziosa testimonianza di carità e di servizio ai poveri che offrono i figli e le figlie di san Vincenzo de' Paoli. Egli, mentre incoraggia a proseguire con impegno sempre nuovo nell'imitazione del Buon Samaritano, secondo il carisma del Fondatore, invoca, per intercessione della Madre del Salvatore, su di Lei e sull'intera Famiglia Vincenziana doni di grazia, di speranza e di pace ed è lieto di inviare a ciascuno una speciale Benedizione Apostolica, estendendola volentieri alle persone care.

Nel significarLe, con rammarico, che il mancato saluto è stato determinato unicamente da un involontario disguido, profitto della circostanza per confermarmi con sensi di distinta stima
dev.mo nel Signore

Mons. Gabriele Caccia

 

 

Reverendo Padre P. ERMINIO ANTONELLO
Congregazione della Missione
Responsabile della Famiglia Vincenziana in Italia
Via XX Settembre, 23
10121 TORINO

 

IL CARD.FRANC RODE' AI PARTECIPANTI AL CONVEGNO NAZIONALE DELLA FAMIGLIA VINCENZIANA IN ITALIA RIUNITI A ROMA PER RIFLETTERE SULL'ENCICLICA DI BENEDETTO XVI "Deus Caritas Est"

Missione e carità: due aspetti essenziali della spiritualità di san Vincenzo de’ Paoli

di  Gianfranco Grieco

 

La missione e la carità sono due aspetti della spiritualità vincenziana: è quanto il Cardinale Franc Rodé, Prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica ricordava ai partecipanti al Convegno nazionale della famiglia vincenziana in Italia raccolti domenica mattina 21 gennaio attorno all'altare della Cattedra della Basilica di San Pietro, per partecipare all'Eucaristia domenicale e trarre dalle due giornate di lavoro - 20-21 gennaio - dedicate alla studio e all'approfondimento dell'Enciclica «Deus caritas est» ad è un anno dalla pubblicazione, una forte ispirazione per cogliere dal documento un nuovo e forte impulso nel vivere e nel testimoniare il carisma vincenziano oggi.
Il brano domenicale del Vangelo di Luca (l, 1-4; 4, 14-22) ricordava il Cardinale religioso vincenziano - è uno dei testi più significativi e più cari a san Vincenzo, quanto mai appropriato per le giornate del Convegno. Coglieva, infatti, due aspetti significativi della spiritualità vincenziana: la missione e la carità.
La missione di Cristo - rilevava il Cardinale Rodé - è stata quella di «annunciare», «servire», «proclamare» la buona novella; di «prendersi» cura dei fratelli e di «offrire» per amore la vita.
Citava il Cardinale sloveno, Paul Claudel, il quale, in una meditazione sul Natale del Signore, presentava così il Figlio di Dio che «si mette nudo tra le nostre braccia. Ci fa sapere che ha bisogno di noi, che vuole risvegliare in noi una parentela indispensabile, irresistibile. Si direbbe che abbia dimenticato di essere Dio, e che solo sulle nostre labbra voglia farselo dire. ... C'è un Dio, tra le braccia della sua creatura che si rènde conto di quanto Egli pesi. Ed io, uomo, io sostengo Dio. lo lo tengo, lo sostengo, lo contengo: nulla c'è in Lui che mi sfugga. lo lo porto, lo sopporto e l'apporto».
La missione e la carità di Cristo spiegava il Cardinale celebrante - sono oggi «affidate» anche alle nostre mani, ai nostri occhi, ai nostri cuori. Siamo chiamati a «portare» questo Gesù, a rendere effettivo il Vangelo nelle situazioni concrete di servizio e di amore in cui ci troviamo».
Il Convegno - continuava il Cardinale Rodé - vuole essere un segno di riconoscenza a Benedetto XVI per il dono dell'Enciclica Deus Caritas est ad un anno dalla pubblicazione ed anche «una spinta a rinnovare la qualità della presenza vincenziana in Italia». Rivolgendosi direttamente alla famiglia vincenziana in Italia, il Cardinale ricordava: «Avete una ricca tradizione alle spalle, ma avete anche il compito di rendere attuale il dono» che Cristo Signore ha fatto nel tempo a san Vincenzo, a santa Luisa, a santa Giovanna Antida Thouret, san Giustino de Jacobis al beato Federico Ozanam, beatificato da Giovanni Paolo II, a Parigi nel 1997, durante la Giornata mondiale della Gioventù.
Il vostro agire - sottolineava ancora Cardinale Rodé - «sarà tanto più efficace quanto più affonderà le sue radici in un appassionato amore a Dio e a Cristo» e, come ha scritto Benedetto XVI, «una conseguenza derivante dalla fede che diventa operante nell'amore» (Deus caritas est, n. 31).
«Sentitevi mandati in mezzo ai fratelli per servirli con amore, con "lo sguardo misericordioso di Cristo" - esortava - Sentitevi spinti dalla carità di Cristo a essere testimoni della sua presenza. Il criterio del vostro agire sia sempre questo: "L'amore di Cristo ci spinge" (2 Cor 5, 14). «La consapevolezza che in Lui, Dio stesso si è donato per noi fino alla morte, deve indurci a non vivere. più per noi stessi, ma per Lui, e con Lui per gli altri» (Deus caritas est, n. 33). «Servire per Lui e con Lui garantirà un donarsi libero e liberante. Un amore bruciante, inventivo, fedele, coraggioso, creativo che agisce nella concretezza della vita quotidiana, in maniera liberante» - sottolineava -. E continuava nell'esortazione: «Vivete il vostro servizio in spirito di umiltà, humus necessario per accogliere i doni di Dio e farli fruttare divenendo così anche voi dono di Dio».
Citava a riguardo san Vincenzo, il quale diceva: «Svuotatevi di voi stessi e Dio vi riempirà di sé». La carità - spiegava - «è dono di Dio, di cui dobbiamo essere accoglienti, rendendoci disponibili in maniera cordiale e coinvolta. Noi possiamo dare agli altri solo quello che lasciamo mettere al Signore, fonte di ogni carità e di ogni bene, svuotandoci di tutto ciò che non è Lui». Nel citare ancora Papa Benedetto XVI rilevava: "L'amore si nutre dell'incontro con Cristo". (Deus caritas est, n. 34). E Lui il maestro mite e umile di cuore da cui trarre sempre ispirazione nel nostro essere e nel nostro agire». E citava di nuovo l'Enciclica il Cardinale, per sottolineare l'attualità della «missione» e della «carità»: «Quanto più uno si adopera per gli altri, tanto più capirà e farà sua la parola di Cristo: Siamo servi inutili... uno strumento nelle mani del Signore». Chi opera nel servizio della carità «in umiltà fa quello che è possibile fare e in umiltà affiderà il resto al Signore» (Deus caritas est, n. 35). Questo - spiegava - «era lo stile caro a san Vincenzo, che cercò sempre di agire spinto dall'amore di Cristo, diceva infatti:"un cuore che ami Nostro Signore non può tollerare la sua assenza e si stringe a Lui con questo amore affettivo, che produce l'amore effettivo"».
L'amore effettivo ha bisogno di esprimersi in gratuità - spiegava ancora il Cardinale celebrante -. Amore «gratuito» è l'«agire di Dio» nei nostri confronti, che con larghezza si dona e ci usa continuamente misericordia». Nel riproporre il testo di Matteo 10, 8: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date», il Cardinale Rodé annotava come «il discepolo di Cristo deve vivere in questo modo e agire in maniera grata e gratuita. Impariamo quotidianamente a mettere "un di più" di gratuità, di disponibilità e di fierezza nei piccoli gesti che fanno il tessuto della nostra giornata». «L'amore è gratuito - diceva nel richiamare altri passi della Deus caritas est -non viene esercitato per raggiungere altri scopi... il cristiano sa quando è tempo di parlare di Dio e quando è giusto non parlare di Lui e lasciar parlare l'amore, Egli sa che Dio è Amore e si rende presente proprio nei momenti in cui nient'altro viene fatto fuorché amare» (n. 31).
L'amore - concludeva - «esige partecipazione, condivisione, in una parola collaborazione». San Vincenzo de Paoli in tutte le sue opere voleva che i vari rami della sua famiglia lavorassero insieme. Ricordate l'epopea della guerra alle frontiere? - chiedeva all'assemb1ea, ricordando una storica pagina vincenziana -. Nel 1636 venne presa Corbie. I nemici erano alle porte di Parigi, mentre dappertutto scoppiavano le rivolte de. croquants, Le dame pensavano di abbandonare l'opera dei trovatelli. Il santo non si arrese. Il pane buono spari dalla mensa di San Lazzaro, Convocò le dame, fece partire per le zone devastate le suore e i missionari, Costituì un secondo fronte, il fronte della carità. E la patria fu salva - sottolienava il Cardinale Prefetto -. il Porporato si complimentava con gli organizzatori del Convegno per il titolo dato alle due giornate vincenziane romane: «L'amore è possibile», aggiungendo alle parole del Papa la forza della profezia e della testimonianza: «L'amore è possibile e noi siamo in grado di praticarlo perché creati a immagine di Dio». Concludendo il Cardinale citava ancora un passo significativo di. Paul Claudel:
«Abbiamo sentito l'Uomo lamentarsi - per bocca di Giobbe - e del suo destino, della sua breve carriera ch'egli percorre dalla culla alla tomba nella sofferenza, nell'ignoranza, nel peccato, Ebbene! proprio questo destino miserabile e meschino, Dio, il Perfetto, l’Essere incomunicabile, ha scelto di rivestirlo in quel che ha di più umile ed abietto (sono, queste, parole testuali della Scrittura). Ha chiesto a una creatura quale noi siamo di condividere il suo cuore».
«Vivete nell'amore - esortava infine il Cardinale Rodé - siatene strumenti privilegiati per seminare altro amore, suscitare speranza, sensibilizzare gli altri con audacia e con gioia. E la carità di Cristo che vi spinge. Siate, ovunque il Signore vi manda, vangeli aperti alla pagina della carità».
Dopo la solenne concelebrazione i partecipanti al Convegno ritornavano nel salone dell' Augustinianum per l' «Assemblea di risonanza» sull'ascolto delle magistrali relazioni tenute sabato mattina 20, dal Vescovo Rino Fisichella, Rettore della Pontificia Università Lateranense e dal Padre Erminio Antonello, Visitatore del Missionari di San Vincenzo della Provincia di Torino. I due temi erano: «La prospettiva teologica dell’Enciclica Deus caritas est» e «Prospettive e implicazioni dell’Enciclica con il carisma vincenziano». Sulle due relazioni torneremo nell’edizione di domani.

(da L'Osservatore Romano, Lunedì-Martedì 22-23 Gennaio 2007)

L'ENCICLICA DEUS CARITAS EST E L'ESPERIENZA VINCENZIANA

LA TRAMA DI FONDO DELLA DEUS CARITAS EST: LA CARITA' RENDE RAGIONE DELLA FEDE

 

H. U.Von Balthassar, il teologo amico di Benedetto XVI, ebbe a scrivere: “Solo l’amore è credibile”. Ora è proprio questa tesi che sembra guidare la preoccupazione di Benedetto XVI nel suo pontificato, di cui l’enciclica Deus caritas est rappresenta la proposta programmatica, poiché egli afferma: “La miglior difesa di Dio e dell’uomo consiste proprio nell’amore” (DCE n. 31, c).

Dove si vede e si tocca che la fede cristiana corrisponde alla domanda dell’uomo di voler sapere il senso della realtà e del suo destino, e dunque è ragionevole? Nel fatto che Dio suscita l’amore nel cuore umano. Un’espressione di quel libro di Von Balthassar sopra citato illumina il pensiero insistente del papa che l’amore per poter essere donato deve essere ricevuto: “Quando la mamma per giorni e settimane intere ha sorriso al suo bambino, giunge il giorno in cui il bambino le risponde con un sorriso. Essa ha destato l’amore nel cuore del bambino e il bambino, svegliandosi all’amore, si sveglia alla conoscenza: le impressioni sensibili che fino allora erano rimaste vuote, ora si raggruppano attorno al nucleo del tu. La conoscenza comincia ad operare perché l’amore è stato messo in moto dalla madre. Così Dio si manifesta all’uomo come amore: è Dio che illumina l’amore e lo fa risplendere e accende nel cuore umano la luce dell’amore, quella luce che appunto è in grado di vedere quest’amore: l’amore assoluto. Da quel volto ci sorride la causa prima dell’essere. In quanto siamo sue creature, il germe dell’amore è assopito dentro di noi. E come nessun bambino si risveglia all’amore se non è amato, così nessun cuore umano può destarsi alla comprensione di Dio senza il libero dono della sua grazia” (H.U. Von Balthassar, Solo l’amore è credibile, ed. Borla 1965, p. 78). Il cristiano dunque fa esperienza del movimento gratuito di Dio che lo abbraccia nella sua libertà. E così l’uomo non si sente più “gettato in un mondo anonimo”, senza disegno e alla deriva. L’esistenza umana, qualunque essa sia, è un’esistenza supremamente amata. E da qui prende inizio l’esperienza della carità come rapporto d’amicizia fra persone, portando a condividerne i bisogni. “La fede, che prende coscienza dell’amore di Dio rivelatosi nel cuore trafitto di Gesù sulla croce, suscita a sua volta l’amore”, dice il Papa in un passaggio dell’enciclica (DCE, 39). La garanzia della positività della vita si trova nel circolo virtuoso che va dal “sentirsi amati” al diventare, a nostra volta, “capaci di amare”. E’ qui, nella bellezza della carità ricevuta e donata, che si può toccare il Dio di Gesù e si può dire: questo Dio mi corrisponde. Questa è la logica interna dell’enciclica: mostrare che la via dell’amore corrisponde al bisogno più profondo della dinamica umana, e perciò coincide con la “ragionevolezza della fede”. Pertanto si può dire che, per papa Benedetto, la carità rende ragione della fede.
Pertanto il compito del cristiano è di dare corpo all’amore di Dio nella storia. Senza l’esperienza di una carità fattiva - sostiene il papa al n. 24 - il cristianesimo si dissolve in ideologia, e perde la sua ragionevolezza. Ciò che può indurre infatti l’uomo del nostro tempo a credere è l’amore di Dio reso esperimentabile in questo mondo segnato dal peccato e dall’odio, dai rancori e dalle guerre, mediante la carità dei cristiani. La carità nelle due forme di amore di Dio verso la propria persona e di carità offerta al fratello, diventa così la grande apologia del cristianesimo.er l’evangelizzazione”.

Per inciso, va detto che occorrerebbe superare una terminologia ristretta nel pensare alla “carità-agape” e riconoscere a questa parola un ampio respiro, poiché, come esprime tutta l’enciclica, essa indica assai più della semplice attività verso i fratelli bisognosi.
La carità, nella sua accezione sorgiva, è il rapporto trinitario che anima la vita intima di Dio. E’, di conseguenza, anche il dinamismo spirituale che lo Spirito Santo riversa su di noi, convertendo la nostra falsa coscienza e liberandola dall’essere ostaggio del comodo, del benessere, dell’interesse, del guadagno, della compensazione, del potere. La carità è l’amore di Dio riversato nel nostro intimo (Rom 5, 5): esso ha bisogno di diventare il principio vitale della nostra umanità e potersi riverberare nelle nostre facce. A questa condizione il cristianesimo può presentarsi come la verità per l’uomo.

Il “filo rosso” che caratterizza il pensiero dell’enciclica

Nell’enciclica vi è una grande ricchezza di contenuti. A noi interessa cogliere il “filo rosso” che li tiene insieme. A me sembra che l’enciclica si snodi sotto forma di un dialogo sotterraneo. Il papa non parla in astratto. Ha davanti a sé il mondo moderno con il suo agnosticismo ed il credente concreto. Dialoga con questi interlocutori. E spiega loro quale sia il nucleo originario e centrale del cristianesimo. Nel suo centro non ci sta una teoria della società. Non ci sta un’etica. Ci sta “l’incontro con un avvenimento, con una Persona”, che colma l’orizzonte delle esigenze del cuore umano. (DCE n. 1) E descrive poi quest’avvenimento nella forma di una storia di amore, in cui Dio, il protagonista, mentre svela la sua natura di essere l’Amore, permette all’uomo di ritrovare le sue fattezze e riscoprire la propria dignità di figlio amato. E la carità dei cristiani amplifica nel tempo questa storia della tenerezza di Dio per la sua creatura: una storia che, per essere tale, è accompagnata dal suo Spirito d’amore.

a) Dio ama perdutamente la sua creatura con amore anticipatore

Dio si comunica in una storia di alleanza, all’interno della quale Egli patisce un’autentica passione per la sua creatura: “Dio è un amante con tutta la passione di un vero amore” (DCE n. 10). Al suo popolo si è legato con un legame sponsale, patisce quando questo popolo si separa, ne gioisce quando si comporta sponsalmente in un’appartenenza sincera. A questa storia appartiene il suo Figlio incarnato, crocifisso e risorto: supremo e insuperabile legame con cui la paternità di Dio intreccia il proprio Mistero con la sua creatura. Al riguardo Benedetto XVI non disdegna di attribuire una certa qual passione-eros in Dio nell’esprimere la sua dilezione per l’uomo: “L’unico Dio, in cui Israele crede, ama personalmente. Il suo amore è un amore elettivo … Egli ama, e questo suo amore può essere qualificato senz’altro come eros, che tuttavia è anche e totalmente agape” (DCE n. 9). L’uomo è l’immagine di Dio in cui Egli si specchia e riposa. Soltanto con la sorpresa di questo amore antecedente e gratuito è possibile predisporsi ad entrare in una relazione avvincente d’amore con la paternità di Dio:
“Siccome Dio ci ha amati per primo (cf Gv 4,10), l’amore adesso non è più un comandamento, ma è la risposta al dono dell’amore, col quale Dio ci viene incontro.  … Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui”  . Queste parole della Prima Lettera di Giovanni esprimono con singolare chiarezza il centro della fede cristiana: l’immagine cristiana di Dio e anche la conseguente immagine dell’uomo e del suo cammino (DCE n. 1)

b) Dio intesse una storia di reciprocità con l’uomo, ricercando la sua risposta d’amore

Tra Dio e l’uomo vi è un rapporto che vive di reciprocità; e Benedetto XVI, citando san Giovanni, descrive tale reciprocità utilizzando la metafora della dimora: “Dio è amore : chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in Lui”. Amare è un dimorare reciprocamente di Dio nell’uomo e dell’uomo in Dio. Una casa è il luogo della familiarità, dove l’affetto reciproco è spontaneo ed immediato. E’ come se Dio dicesse alla sua creatura: sono contento di abitare con te, di stare con te, di intessere una relazione con te, perché nella tua casa io sto bene, mi trovo a casa mia. Si tratta dunque della familiarità di un rapporto, che esprime la gioia del riconoscimento reciproco. Propriamente è il rapporto di un padre e di un figlio: poiché questo è il rapporto che costituisce una famiglia. Non vi è più solo il rapporto religioso, per cui l’uomo è in ricerca di Dio, mistero sconosciuto e da temere; ma prima di tutto vi è “la sete di un Padre” che ricerca la sua creatura mostrandosi nell’amore: “Egli ci ama, ci fa vedere e sperimentare il suo amore e, da questo “prima” di Dio, può come risposta spuntare l’amore anche in noi” (DCE 17). Questa ricerca con cui Dio nel suo Figlio Incarnato, Crocifisso e Risorto, si protende verso l’uomo, con l’abbraccio da padre a figlio, ne riscalda l’incoscienza, mostrandone, preventivamente e antecedentemente ai meriti, rendendosi toccabile nell’amore di Gesù (cf DCE 12). Tale dimostrazione d’amore tende dischiudere la coscienza addormentata dell’uomo d’ogni tempo, portandola alla gioiosa scoperta di appartenere ad un disegno buono d’amore. Per questo l’amore diventa la porta che apre l’intelligenza umana su Dio, sull’uomo e sul mondo.

c) L’amore è principio di conoscenza per l’uomo

In conclusione, mi pare che il nerbo segreto dell’enciclica Deus Caritas est sia precisamente che l’amore è la via per la conoscenza di Dio e dell’uomo. L’uomo d’oggi potrà conoscere Dio e se stesso se potrà fare una qualche esperienza della carità, se cioè potrà in qualche modo esperimentare nei credenti l’avvicinarsi di Dio alla propria umanità:
“… nella storia della Chiesa il Signore non è rimasto assente - dice il Papa -: sempre di nuovo ci viene incontro attraverso uomini nei quali Egli traspare, attraverso la sua Parola, nei Sacramenti, specialmente nell’Eucaristia” (DCE n. 17).
Il Papa infatti esorta a “a vivere l’amore e in questo modo far entrare la luce di Dio nel mondo” (DCE 39). La fede e la carità vincono alla radice ogni forma di pessimismo circa la realtà della storia:
“I cristiani continuano a credere, malgrado tutte le incomprensioni e confusioni del mondo circostante, nella “bontà di Dio” e nel “suo amore per gli uomini” (Tt 3, 4). Essi, pur immersi come gli altri uomini nella drammatica complessità delle vicende della storia, rimangono saldi nella certezza che Dio è Padre e ci ama, anche se il suo silenzio rimane incomprensibile per noi” (DCE 38).

“accordature” tra il magistero del Papa e il carisma vincenziano

 

Su questi presupposti, che esprimono un’idea di fondo del Papa, e cioè che il cristianesimo diventa significativo per “ragione umana” attraverso la via della carità, cercherò di delineare alcuni aspetti di consonanza tra l’insegnamento del Papa e la nostra esperienza vincenziana di evangelizzazione e servizio del povero.

 

a) Il punto di partenza della carità verso i poveri: uno sguardo di fede

Nella tradizione vincenziana c’è un testo che illumina il nostro modo di operare nella carità e ne costituisce il principio di azione. Dice san Vincenzo:
“Non devo considerare un povero contadino o una povera donna dal loro aspetto, né dalla loro apparente mentalità; molto spesso non hanno quasi la fisionomia, né l’intelligenza delle persone ragionevoli, talmente sono rozzi e materiali. Ma rigirate la medaglia, e vedrete alla luce della fede che il Figlio di Dio, il quale ha voluto esser povero, ci è raffigurato da questi poveri. Egli non aveva quasi le sembianze d’uomo nella sua passione, e fu giudicato pazzo dai gentili, e pietra di scandalo dai giudei; eppure Egli si qualifica l’evangelizzatore dei poveri. Evangelizzare pauperibus misit me. O Dio! Quanto è bello vedere i poveri, se li consideriamo in Dio, e con la stima che Gesù Cristo ne aveva! Ma se li guardiamo secondo i sentimenti della carne e dello spirito umano, ci sembreranno disprezzabili” (Coste XI, 32)
Il tema qui riportato è quello dello sguardo. Dal modo di guardare dipende molto del modo di operare (Mt 6, 22 – Lc 11, 34). Lo sguardo determina il nostro mondo interiore: il pensiero, il sentimento, l’atteggiamento, la volontà. Ed è da quel vissuto interiore che ciascuno trae le motivazioni e la spinta per l’azione. Ora nell’evangelizzazione e servizio dei poveri, dice san Vincenzo, è decisivo il modo di considerarli, cioè di guardarli. Prima che noi “facciamo qualcosa” per loro, c’è un’operazione previa: ed è il modo di guardarli. Uno sguardo che non sia mosso soltanto dal “sentimento naturale”, ma piuttosto sia illuminato “dalla luce della fede”. Il punto di partenza del gesto di carità - dice dunque san Vincenzo  - è lo sguardo che nasce dalla fede, che nasce cioè dal nostro rapporto con Cristo.
Ora vi è un brano dell’Enciclica che ricalca questo pensiero. Eccolo:
“Io vedo con gli occhi di Cristo e posso dare all’altro ben più che le cose esternamente necessarie: posso donargli lo sguardo di amore di cui egli ha bisogno … Io amo in Dio e con Dio anche la persona che non gradisco o neanche conosco. Questo può realizzarsi solo a partire dall’intimo incontro con Dio, un incontro che è diventato comunione di volontà arrivando fino a toccare il sentimento. Allora imparo a guardare quest’altra persona non più soltanto con i miei occhi e con i miei sentimenti, ma secondo la prospettiva di Gesù Cristo. Il suo amico è mio amico” (DCE n. 18).
Il realismo della fede cristologica è la ragione profonda del servizio come ripete ancora san Vincenzo:
“Servendo i poveri, servite Gesù Cristo. Figlie mie, quanto è vero! Servite veramente Cristo nella persona dei poveri. E ciò è vero esattamente come è vero che noi siamo qui, ora. Una sorella si recherà dieci volte al giorno dai malati, e dieci volte al giorno vi troverà Dio ... Andate a visitare i prigionieri in catene: vi troverete Dio. Figlie mie, quanto tutto questo ci obbliga! Voi entrerete in case povere, ma vi troverete Dio. Come, ancora una volta, questo ci obbliga!” (SV, IX, 324).
Si può pertanto dire che la carità nasce dalla fusione di due orizzonti: lo sguardo verso il povero e lo sguardo verso Cristo. Se questi due sguardi non convergono diventa difficile vedere il povero nella sua giusta prospettiva e la carità ne soffre riducendosi o a solidarismo sociale (nel caso in cui vi sia solo lo sguardo verso il povero ed il suo bisogno) oppure a devozionalismo caritatevole (nel caso in cui vi sia solo lo sguardo della fede). Ed il papa denuncia entrambi questi due modi che non esprimono adeguatamente la carità. Il primo, quello della riduzione della carità a solidarismo sociale, viene stigmatizzato così attraverso il ricordo della Chiesa primitiva:
“… (il gruppo dei sette diaconi) non doveva svolgere un servizio semplicemente tecnico di distribuzione: dovevano essere uomini “pieni di Spirito e di saggezza” (cf At 6, 1-6). Ciò significa che il servizio sociale che dovevano effettuare era assolutamente concreto, ma al contempo era senz’altro anche un servizio spirituale; il loro perciò era un vero ufficio spirituale, che realizzava un compito essenziale della Chiesa, quello dell’amore ben ordinato del prossimo” (DCE n. 21). “È molto importante che l’attività caritativa della Chiesa mantenga tutto il suo splendore e non si dissolva nella comune organizzazione assistenziale, diventandone una semplice variante” (DCE n. 31, inizio).
Ed il secondo, quello di un pietismo caritatevole:
Se … nella mia vita tralascio completamente l’attenzione per l’altro, volendo essere solamente “pio” e compiere i miei “doveri religiosi”, allora s’inaridisce anche il rapporto con Dio. Allora questo rapporto è soltanto “corretto”, ma senza amore. Solo la mia disponibilità ad andare incontro al prossimo, a mostrargli amore, mi rende sensibile anche di fronte a Dio. Solo il servizio al prossimo apre i miei occhi su quello che Dio fa per me e su come Egli mi ama.  … Amore di Dio e amore del prossimo sono inseparabili, sono un unico comandamento. Entrambi però vivono dell’amore preveniente di Dio che ci ha amati per primo (DCE 18).
Da queste parole dobbiamo dedurre quanto sia fondamentale il modo di guardare, e quindi la coscienza che si ha e si vive, nell’incontro con il povero. La fede vede la realtà come la vede Gesù. E pertanto dobbiamo interrogarci: qual è stato lo sguardo di Gesù verso “l’altro”? E’ stato uno sguardo di misericordia: provava compassione verso la debolezza umana che riscontrava nella povera gente. Questo atteggiamento umano di Gesù non era semplicemente la momentanea commozione del suo animo umano. Oso dire: era un principio teologico, poiché nel suo sguardo verso la gente Gesù lasciava intravedere la relazione d’amore che Egli viveva all’interno della Trinità. Chi osservava Lui, vedeva l’amore del Padre. Un amore spinto al punto - ripete due volte Papa Benedetto - da “rivolgersi contro se stesso, da rivolgere il suo amore contro la sua giustizia” (DCE, n. 10. 12). Il significato di questa espressione “strana”, o per lo meno originale, è che il suo amore non prescinde dal giudizio della giustizia, ma lo assorbe nell’atto sacrificale del Figlio. Egli armonizza la giustizia e la misericordia, mettendo il peso del nostro male sulle spalle del Figlio. Il guasto del male è sanato (la giustizia), ma sostanzialmente dalla croce del Figlio (misericordia). Questa è l’originalità della fede cristologica. Anche per noi rimane un margine di collaborazione. A noi è chiesto di compartecipare a questo amore sofferente del Figlio che redime, “portando nella nostra carne i patimeni che mancano alla passione di Cristo”, come dice san Paolo. La giustizia dunque si attua nell’amore e non, come immagineremmo noi, nella condanna. A condizione che facciamo nostra la logica dell’amore riparatore e vi partecipiamo:
“Quando Gesù nelle sue parabole parla del pastore che va dietro alla pecorella smarrita, della donna che cerca la dracma, del padre che va incontro al figliol prodigo e lo abbraccia, queste non sono soltanto parole, ma costituiscono la spiegazione del suo stesso essere ed operare. Nella sua morte in croce si compie quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale Egli si dona per rialzare l’uomo e salvarlo - amore, questo, nella sua forma più radicale -. Lo sguardo rivolto al fianco squarciato di Cristo, di cui parla Giovanni (cfr 19, 37), comprende ciò che è il punto di partenza di questa Lettera enciclica: “Dio è amore” (1 Gv 4, 8). È lì che questa verità può essere contemplata. E partendo da lì deve ora definirsi che cosa sia l’amore. A partire da questo sguardo il cristiano trova la strada del suo vivere e del suo amare” (DCE n. 12).
Osserviamo questa insistenza del Papa sullo sguardo, sulla contemplazione. “Il programma del cristiano — il programma del buon Samaritano, il programma di Gesù — è «un cuore che vede»”, dice sinteticamente Papa Benedetto XVI (DCE n. 31, b). Per cui va detto che la prospettiva autentica per vivere la carità, il suo punto di partenza, è guardare il modo di vivere la carità di Cristo. Egli ama fino al sacrificio di sé. Questa è la misura autentica dell’amore. Per impararlo bisogna guardare a Lui.
Ma come è possibile? Il papa dice altrove: “Lo Spirito armonizza il  cuore dei fedeli col cuore di Cristo e li muove ad amare i fratelli come li ha amati lui” (DCE n. 19). Così la carità verso il prossimo non è solo l’atto della generosità dell’animo umano: è piuttosto un atto mistico, mediante il quale, armonizzato il cuore del credente col cuore di Cristo, il credente è abilitato a servire il povero con lo stesso suo amore. Assimilandoci a Cristo nella grazia unificante dello Spirito Santo, impariamo ad amare come Cristo: “L’amore del prossimo è radicato nell’amore di Dio” (DCE n. 20) – dice Benedetto XVI – perché dallo stesso principio non può che scaturire la stessa vita e la stessa azione.
In questa conclusione c’è una sintonia piena tra il pensiero di san Vincenzo e papa Benedetto, che in fondo non è che la consonanza con la tradizione della fede, per cui fede e carità non possono restare parallele, ma devono intrecciarsi, poiché l’agire come Gesù deriva dal vivere con Gesù.
“Ecco il vero compito – diceva san Vincenzo -: rivestirsi dello spirito di Gesù Cristo! E ciò vuol dire che per … assistere utilmente la gente ... dobbiamo darci da fare per imitare la perfezione di Gesù Cristo e cercare di acquisirla. E proprio perché il compito è così alto dobbiamo essere coscienti che da noi non possiamo nulla. Pertanto è necessario essere ripieni ed animati dallo spirito stesso di Gesù-Cristo”(Coste XII, 107-108). “E’ necessario che Gesù Cristo stesso agisca con noi, o noi con Lui; che noi operiamo in Lui e Lui in noi; che parliamo come Lui e nel suo spirito, così come Lui era nel Padre suo e annunciava la dottrina appresa dal Padre”. (Coste XI, 343)

b) La carità e l’eucaristia: un amore inventivo all’infinito

Guardare a Cristo ed assimilarsi a Lui, abbiamo detto, è all’origine della carità. Ma come avviene questo processo? Il papa lo ha accennato in un testo: “I santi … hanno attinto la loro capacità di amare il prossimo, in modo sempre nuovo, dal loro incontro col Signore eucaristico” (DCE 18). Qui c’è un secondo elemento di convergenza con il pensiero di san Vincenzo.

Nei modi vincenziani di parlare è invalso l’uso di applicare all’amore di carità il passo, in cui san Vincenzo parla dell’amore che “è inventivo all’infinito” (Coste XI, 146). Dicendo che “l’amore è inventivo all’infinito” si vuol indicare che la carità non deve avere barriere, né porre condizioni o resistenze, poiché appunto la carità sa tradursi in infiniti gesti di cura verso l’altro. Ma nel modo di utilizzare questa espressione si trascura completamente il contesto in cui san Vincenzo la usa. Essa propriamente non riguarda la carità, si riferisce invece all’Eucaristia. La frase è all’interno di una esortazione ad un confratello morente, nella quale san Vincenzo gli suggerisce alcune elevazioni spirituali. Tra queste, uno dei pensieri dettati al confratello lo porta a considerare come sia grande l’amore di Dio, che poiché è “inventivo all’infinito” si è offerto all’uomo non solo nella sua umanità donata nell’incarnazione e sacrificata sulla croce, ma anche nell’Eucaristia, sacramento che risulta “uno stratagemma del suo amore per conquistarsi le anime ed i cuori di coloro da cui vuole essere amato”. Così tra la vulgata vincenziana e il pensiero autentico di san Vincenzo, quasi inavvertitamente è stato posto un principio importante, suffragato da altri testi molto chiari di san Vincenzo. E cioè, una carità autentica “inventiva all’infinito” avviene attraverso l’assimilazione a Cristo incontrato nel sacramento dell’Eucaristia.

L’eucaristia fonte della carità è un pensiero caro a Papa Benedetto, argomentato nei nn. 13-14, nei quali prende posizione contro il tentativo di sconnettere la fede dalla morale, la pietà dall’agire nella carità, riducendoli ad elementi disarticolati e tra loro giustapposti, mentre essi sono intimamente connessi nell’atto di partecipare alla comunione eucaristica:
nella comunione eucaristica è contenuto l’essere amati e l’amare a propria volta gli altri. Un’Eucaristia che non si traduca in amore concretamente praticato è in se stessa frammentata. Reciprocamente — come dovremo ancora considerare in modo più dettagliato — il “comandamento” dell’amore diventa possibile solo perché non è soltanto esigenza: l’amore può essere “comandato” perché prima è donato” (DCE n. 14 fine).
L’azione caritativa – insiste ancora il Papa - non è semplicemente un impegno che consegue dall’incontro eucaristico con Gesù. Ma l’azione caritativa si trova già in seme nel sacramento stesso dell’Eucaristia, poiché essa per sua natura stabilisce una “comunione” con le persone a cui ci si rivolge con l’atto caritativo.
Se il mondo antico aveva sognato che, in fondo, vero cibo dell’uomo — ciò di cui egli come uomo vive — fosse il Logos, la sapienza eterna, adesso questo Logos è diventato veramente per noi nutrimento — come amore. L’Eucaristia ci attira nell’atto oblativo di Gesù. Noi non riceviamo soltanto in modo statico il Logos incarnato, ma veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione. … ciò che era lo stare di fronte a Dio diventa ora, attraverso la partecipazione alla donazione di Gesù, partecipazione al suo corpo e al suo sangue, diventa unione. … C’è da far attenzione: … la “mistica” del Sacramento ha un carattere sociale, perché nella comunione sacramentale io vengo unito al Signore come tutti gli altri comunicanti: “Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane”, dice san Paolo (1 Cor 10, 17). L’unione con Cristo è allo stesso tempo unione con tutti gli altri ai quali Egli si dona. Io non posso avere Cristo solo per me; posso appartenergli soltanto in unione con tutti quelli che sono diventati o diventeranno suoi. La comunione mi tira fuori di me stesso verso di Lui, e così anche verso l’unità con tutti i cristiani. Diventiamo “un solo corpo”, fusi insieme in un’unica esistenza. Amore per Dio e amore per il prossimo sono ora veramente uniti: il Dio incarnato ci attrae tutti a sé. Da ciò si comprende come agape sia ora diventata anche un nome dell’Eucaristia: in essa l’agape di Dio viene a noi corporalmente per continuare il suo operare in noi e attraverso di noi. Solo a partire da questo fondamento cristologico-sacramentale si può capire correttamente l’insegnamento di Gesù sull’amore. Il passaggio che Egli fa fare dalla Legge e dai Profeti al duplice comandamento dell’amore verso Dio e verso il prossimo, la derivazione di tutta l’esistenza di fede dalla centralità di questo precetto, non è semplice morale che poi possa sussistere autonomamente accanto alla fede in Cristo e alla sua riattualizzazione nel Sacramento: fede, culto ed ethos si compenetrano a vicenda come un’unica realtà che si configura nell’incontro con l’agape di Dio (DCE 13-14).
Allo stesso modo, nel pensiero di san Vincenzo che educa le prime suore alla carità è chiaro il collegamento della carità alla comunione eucaristica. L’eucaristia viene presentata come la sorgente della carità, poiché la Figlia della Carità, quando si avvicinerà al povero per servirlo, non sarà più soltanto lei a compiere quel gesto, ma sarà Gesù che agisce in lei. E più sarà unita a Gesù e più amerà con il suo stesso amore i poveri che serve.
“La persona che si è comunicata bene, fa tutto bene! Ed è vero, perché come potrebbe fare qualche cosa di male colei che è stata tanto fortunata da fare una buona comunione? Essa porta Dio nel cuore, porta ovunque un buon odore, non fa nulla se non in vista e per amor di Dio. Dunque, figlie mie, potete star sicure che una Figlia della Carità, che si sia ben comunicata, fa tutto il resto bene. Il suo cuore è tabernacolo di Dio, sì, il tabernacolo di Dio. … La persona che si è ben comunicata fa tutto bene! … Non farà le azioni sue, farà le azioni di Gesù Cristo; servirà i malati con la carità di Gesù Cristo, avrà nella sua conversazione la mitezza di Gesù Cristo, avrà nelle contraddizioni la pazienza di Gesù Cristo, avrà l’obbedienza di Gesù Cristo. Insomma, figlie mie, tutte le sue azioni non saranno più le azioni di una semplice creatura, saranno le azioni di Gesù Cristo. Dimodoché, figlie mie, la Figlia della Carità che sia ben comunicata, non fa nulla che non sia gradito a Dio, facendo essa le azioni di Dio stesso. L’eterno Padre guarda il suo Figlio in quella persona, guarda tutte le azioni di quella persona come le azioni del suo Figlio. Quale grazia, figlie mie! Esser certi di essere guardati da Dio, considerati da Dio, amati da Dio! Dunque, quando vedrete una Figlia della  Carità servire i malati con amore, dolcezza, grande cura, potete dire arditamente: “Questa suora si è comunicata bene”. Quando vedrete una suora paziente nei suoi incomodi, soffrire lietamente tutto quello che può incontrare di penoso, oh! siate certe che quella suora ha fatto una buona comunione e che quelle virtù non sono virtù comuni, ma virtù di Gesù Cristo. Applicatevi, figlie mie, a imitare la sacratissima e augusta persona di Gesù Cristo, e per Lui medesimo e perché vi renda accette a Dio suo Padre.” (Coste IX, 331-333).
“Avviciniamoci a quel fuoco(eucaristia) per esserne prima infiammati e poi per attirarvi gli altri con la nostra carità e il nostro buon esempio. Sappiate, figlie mie, che la virtù capitale delle Figlie della Carità è di comunicarsi bene” (Coste IX, 240).
La logica di papa Benedetto è la stessa di quella di san Vincenzo: non si può vivere la carità se non si è in comunione con Cristo.
“Egli per primo ci ha amati e continua ad amarci per primo; per questo anche noi possiamo rispondere con l’amore. … ci ama, ci fa vedere e sperimentare il suo amore e, da questo “prima” di Dio, può come risposta spuntare l’amore anche in noi” (DCE, n. 17).
Per entrambi i pensieri, di papa Benedetto e di san Vincenzo, possiamo dire che la carità viene nutrita e custodita dall’Eucaristia. L’Eucaristia porta ad identificarci sacramentalmente a Cristo, per modo tale che egli diventa la relazione in cui la nostra coscienza più profondamente si configura e l’affetto su cui maggiormente la nostra consapevolezza si radica. “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me ed Io in lui. Colui che mangia di me vivrà per me” (Gv 6, 56-57). Da questo rapporto vissuto e sentito nasce e rinasce la carità verso il prossimo.

c) La carità è un’esperienza di relazione

Un terzo elemento che avvicina il pensiero del Papa all’esperienza caritativa vincenziana è la considerazione della carità come esperienza di rapporto con il povero. Il carattere distintivo dell’esperienza caritativa nel mondo vincenziano si trova nella “visita a domicilio”, il cui valore è determinato precisamente dalla “relazione da persona a persona” che si stabilisce nella carità. In tal senso il pensiero di san Vincenzo è un richiamo costante alla relazione con il povero, con l’esigenza ad entrare in relazione con lui, poiché soltanto in questa reciproca empatia vi è la possibilità di un aiuto veramente umano.
“Quando andiamo a visitare i poveri – diceva san Vincenzo - dobbiamo immedesimarci nei loro sentimenti e soffrire con loro (…). Bisogna cercare d’intenerire i nostri cuori e renderli sensibili alle pene e alle miserie del prossimo, e pregare Dio di darci il vero spirito di misericordia, che è propriamente il suo spirito; perché, come dice la Chiesa, la caratteristica di Dio è di usar misericordia e darne lo spirito” (XI, 340-341).
Le cose infatti, che si possono dare per venire incontro ai poveri, non esauriscono il loro bisogno. Questo pensiero è comune sia a san Vincenzo che a Benedetto XVI:
“Al di là dell’apparenza esteriore dell’altro scorgo la sua (dell’altro) interiore attesa di un gesto di amore, di attenzione, che io non faccio arrivare a lui soltanto attraverso le organizzazioni a ciò deputate, accettandolo magari come necessità politica. Io vedo con gli occhi di Cristo e posso dare all’altro ben più che le cose esternamente necessarie: posso donargli lo sguardo di amore di cui egli ha bisogno” (DCE, n. 18)
Per Papa Benedetto, ciò di cui il povero ha bisogno prima di tutto è “un gesto d’amore”. Necessita cioè di un rapporto nella carità. “La carità è sempre più che una semplice attività … L’azione pratica resta insufficiente se in essa non si rende precepibile l’amore per l’uomo, un amore che si nutre dell’incontro con Cristo” (DCE, 34). E per questo la carità avrà sempre un posto anche nella società più giusta, poiché
“la competenza professionale è una prima fondamentale necessità, ma da sola non basta. Si tratta, infatti, di esseri umani, e gli esseri umani necessitano sempre di qualcosa in più di una cura solo tecnicamente corretta. Hanno bisogno di umanità” (DCE 31, a).
Per Papa Benedetto che ha come prospettiva del suo parlare il capitolo 13 della Prima Lettera ai Corinti di san Paolo (cf DCE n. 34), la carità, prima di essere un dare o un dire qualcosa a qualcuno, è un’esperienza di relazione, in cui ciò che ci si scambia è l’umanità. Senza questo scambio, la carità resta una semplice operazione di soccorso, che è un aspettoimportante della carità, ma non ne costituisce il cuore.
“L’intima partecipazione personale al bisogno e alla sofferenza dell’altro diventa così un partecipargli me stesso: perché il dono non umilii l’altro, devo dargli non soltanto qualcosa di mio ma me stesso, devo essere presente nel dono come persona” (DCE n. 34).
Il povero non può essere infatti considerato unicamente in base al suo bisogno: sarebbe confinarlo e rinchiuderlo in un limite. Lo stato di bisogno non è mai soltanto un “qualcosa” che manca: è anche un’occasione per fare l’esperienza di sé e dell’altro. Il povero che avviciniamo, in realtà, possiede una dignità che non può mai venire oscurata dallo stato di ingiustizia in cui è stato confinato o nel quale si è confinato. Incontrare il bisogno dell’altro nella carità porta un poco alla volta alla ribalta della coscienza il proprio personale limite e bisogno: ed in questo bisogno, esperimentato su di sé ma preventivamente amato, è favorito lo stare di fronte all’altra umanità in atteggiamento di carità. L’esperienza della propria povertà amata pone nella condizione di stabilire un rapporto di gratuità con un altro in stato di bisogno. Senza questo atteggiamento si finisce incontrare gli altri-poveri con atteggiamenti di superiorità o di presunzione, che feriscono l’azione caritativa.

L’atto della carità crea sempre una reciprocità: nell’atto di dare, si riceve. Ed in questo ricevere è cancellata qualsiasi ombra di superiorità di chi compie l’atto di carità. Pertanto, nell’attività caritativa autentica, nello stare di fronte al povero non possiamo non vedere il povero che è in noi o, per lo meno, quello che saremmo se non avessimo ricevuto tutti doni che abbiamo ricevuto. I poveri ci riflettono sempre questa percezione di noi stessi, mostrandoci quello che siamo in profondità, e cioè che siamo poveri di fronte a noi stessi e a Dio. Questo sguardo di verità su noi stessi ci mette alla pari con i poveri e permette lo scambio caratteristico di una relazione di carità.

Per questo motivo la virtù dell’umiltà, come ci ha insegnato san Vincenzo, è la prima condizione per vivere la carità verso i poveri, poiché “l’umiltà è figlia dell’amore” (Coste XII, 274). Esperimentare noi stessi “poveri” è una garanzia perché l’amore verso Dio e gli altri sia autentico. Esperimentare noi stessi oggetto dell’amore di Dio in maniera gratuita, senza che noi possiamo esibire un qualche merito nell’essere amati, amati dunque gratuitamente nel nostro nulla: questo atteggiamento apre la via della carità autentica. Non si può amare veramente se non si è umili, poiché “l’umiltà è una manifestazione autentica di carità, che attira la simpatia dell’altro” (Coste XII, 273). “Una persona, per quanto sia caritatevole, se non è umile, non ha la carità” (Coste XII, 210).

Pertanto l’avvicinamento al povero nella carità non può svolgersi se non in una relazione di carità. Mediante essa si valorizza l’identità nascosta che ogni povero nasconde al di sotto del suo stato di povertà. Riassumendo, san Vincenzo diceva: «… siete destinate a essere il volto della bontà di Dio verso i poveri …, bisogna pertanto trattarli come questa stessa Bontà vi insegna, cioè con dolcezza, compassione e amore, perché essi sono i vostri padroni» (Coste  X, 332).

Rapporto tra carità ed evangelizzazione

 

Un altro aspetto in cui appare la sintonia tra il pensiero di Benedetto e di san Vincenzo è il rapporto della carità con l’evangelizzazione. Per papa Benedetto la carità è parte costitutiva della missione della Chiesa, insieme all’annuncio della Parola di Dio ed all’amministrazione dei sacramenti (cf DCE n. 22): “La carità non è per la Chiesa una specie di attività di assistenza sociale che si potrebbe anche lasciare ad altri, ma appartiene alla sua stessa natura, è espressione della sua stessa essenza” (DCE 25 a). E perciò la natura della Chiesa di essere relativa a Cristo si manifesta non solo nell’azione di annuncio, né quando lo rende presente nei sacramenti, ma anche quando ne manifesta il volto buono verso l’uomo nell’azione caritativa:
“La consapevolezza che in Gesù Dio stesso si è donato per noi fino alla morte deve indurci a non vivere più per noi stessi, ma per Lui, e con Lui per gli altri. Chi ama Cristo ama la Chiesa e vuole che essa sia sempre più espressione e strumento dell’amore che da Lui promana” (DCE n. 33)
La carità pertanto non è semplicemente una conseguenza della missione della Chiesa, ma è funzione intrinseca della sua natura. E’ il modo di essere delal Chiesa. Da essa dipende la credibilità del suo annuncio, come il papa descrive circa la vicenda storica di Giuliano l’apostata. Questi aveva abbandonato la fede cristiana e, diventato imperatore, aveva restaurato il paganesimo, perché da bambino di sei anni aveva assistito all’efferata esecuzione di suo padre, suo fratello ed altri familiari, fatti crudelmente uccidere dall’imperatore Costanzo, che pure si spacciava per fervente cristiano. Dalla testimonianza della carità dunque dipende in bene o in male l’annuncio missionario. Nell’esercizio della carità si evangelizza, si rende esperienza concreta il Vangelo. Si mostra all’uomo l’amore che Dio nutre per lui nel momento in cui, a causa del disagio, può essere tentato di negarlo o non riconoscerlo. In particolare in un tempo come il nostro, tempo di ragione debole, la strada del servizio di carità può diventare una strada privilegiata per comunicare la fede.
“Amore di Dio e amore del prossimo si richiamano così strettamente che l’affermazione dell’amore di Dio diventa una menzogna, se l’uomo si chiude al prossimo o addirittura lo odia. … l’amore per il prossimo è una strada per incontrare Dio e il chiudere gli occhi di fronte al prossimo rende ciechi anche di fronte a Dio” (DCE 16).
Ugualmente per San Vincenzo l’esercizio della carità corporale è per far arrivare Gesù ai poveri.
“Credete, figlie mie, che Dio voglia da voi solamente che portiate ai suoi poveri un pezzo di pane, un poco di carne e di minestra e qualche medicina? No certamente, figlie mie,; non è stata questa la sua volontà scegliendovi per servirlo nella persona dei poveri. Egli aspetta da voi che provvediate sia ai loro bisogni spirituali sia a quelli materiali. Essi hanno bisogno dello spirito di Dio...” (Coste IX, 239)
Per san Vincenzo il bisogno del povero è ampio come la totalità della sua persona, e perciò bisogna servirlo “corporalmente e spiritualmente”. Ed il servizio corporale è l’occasione per comunicare ai poveri l’amore di Dio, che altrimenti resterebbe a loro precluso o per lo meno difficoltoso. Per san Vincenzo l’amore al povero nasce sì da uno sguardo mistico, ma si traduce in opere che testimoniano l’amore di Dio per la sua creatura.
“Non basta avere la carità nel cuore e nelle parole: essa deve passare nelle opere. Solo allora è perfetta e diventa feconda, perché genera l’amore nei cuori verso i quali si esercita. Questa carità conquista tutti”. (Coste XII, 274). “Nel nostro tempo – diceva - molti sembrano virtuosi, ed alcuni in effetti lo sono, eppure inclinano ad una condotta comoda e disimpegnata, piuttosto che ad una devozione laboriosa e concreta. ... Ecco come dobbiamo testimoniare il nostro amore a Dio: mediante le opere”. (Coste XI, 40-41)
L’annuncio di Cristo diventa concreto nell’opera caritativa. Da questo punto di vista si può dire che la carità è in parallelo con il mistero dell’Incarnazione: come il Logos, il Verbo, si è fatto carne mostrando l’amore del Padre per l’uomo, così l’atto di carità “dà corpo” all’amore. Rende l’amore visibile. L’amore di carità praticato diventa così annuncio di Cristo e della sua tenerezza per l’uomo. E’ azione evangelizzatrice.

Decalogo per il servizio di carità attraverso le parole di Benedetto XVI

Per tentare di riassumere alcuni orientamenti, quelli principali, in ordine ad un servizio della carità in senso cristiano attraverso le parole di papa Benedetto XVI, tento di redigere una specie di decalogo, raccogliendo e adattando le parole del Papa. Il difetto di questa raccolta sta nel distaccare le parole dal contesto e dalla logica del discorso ben articolato del Papa. Tuttavia ha il vantaggio di riassumere alcune idee-forza dell’Enciclica, che possono costituire una specie di vademecum per l’azione caritativa. La loro raccolta è solo funzionale ad una sintesi dell’insegnamento del papa in ordine alla pratica della carità. La trascrizione delle parole è leggermente adattata al nuovo contesto.

1.  Riconosco l’amore preveniente e gratuito di Dio per me e per ogni creatura

Abbiamo creduto all’amore di Dio: così esprimiamo la scelta fondamentale della nostra vita. All’inizio del nostro essere cristiano non c’è una decisione etica, né una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione definitiva. Dio ci ha amati per primo (1 Gv 4, 10): di conseguenza l’amore non è più solo “un comandamento”, ma è la risposta al dono dell’amore con il quale Dio ci viene incontro (cf DCE n. 1).

2. Per vivere un servizio efficace di carità purifico il mio sentimento e accolgo l’amore con il quale Dio mi gratifica

Dio ci ama, ci fa vedere e sperimentare il suo amore e, da questo “prima” di Dio, può come risposta spuntare l’amore anche in noi. Nello sviluppo di questo incontro si rivela con chiarezza che l’amore non è soltanto un sentimento. I sentimenti vanno e vengono. Il sentimento può essere una meravigliosa scintilla iniziale, ma non è la totalità dell’amore. Abbiamo all’inizio parlato del processo delle purificazioni e delle maturazioni, attraverso le quali l’eros diventa pienamente se stesso, diventa amore nel pieno significato della parola. È proprio della maturità dell’amore coinvolgere tutte le potenzialità dell’uomo ed includere, per così dire, l’uomo nella sua interezza (DCE n. 17).  L’uomo è un essere uni-duale, nel quale spirito e materia si compenetrano a vicenda. L’uomo diventa veramente se stesso, quando corpo e anima si ritrovano in intima unità. (DCE n. 5). Eros e agape — amore ascendente e amore discendente — non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro. Quanto più ambedue, pur in dimensioni diverse, trovano la giusta unità nell’unica realtà dell’amore, tanto più si realizza la vera natura dell’amore in genere. Anche se l’eros inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente — fascinazione per la grande promessa di felicità — nell’avvicinarsi “all’altro” si porrà sempre meno domande su di sé, cercherà sempre di più la felicità dell’altro, si preoccuperà sempre di più di lui, si donerà e desidererà esserci per l’altro. Così il momento dell’agape si inserisce in esso; altrimenti l’eros decade e perde anche la sua stessa natura. D’altra parte, l’uomo non può neanche vivere esclusivamente nell’amore oblativo, discendente. Non può sempre soltanto donare, deve anche ricevere. Chi vuol donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono. Certo, l’uomo può — come ci dice il Signore — diventare sorgente dalla quale sgorgano fiumi di acqua viva (cf Gv 7, 37-38). Ma per divenire una tale sorgente, egli stesso deve bere, sempre di nuovo, a quella prima, originaria sorgente che è Gesù Cristo, dal cui cuore trafitto scaturisce l’amore di Dio (cf Gv 19, 34). (DCE n. 7).

3. Il Crocifisso-risorto, dinamicamente presente nell’Eucaristia, è la sorgente viva della mia carità

Noi cristiani continuiamo a credere, malgrado tutte le incomprensioni e confusioni del mondo circostante, nella “bontà di Dio” e nel “suo amore per gli uomini” (Tt 3, 4). Essi, pur immersi come gli altri uomini nella drammatica complessità delle vicende della storia, rimangono saldi nella certezza che Dio è Padre e ci ama, anche se il suo silenzio rimane incomprensibile per noi (DCE n. 38). Il suo amore è talmente grande da rivolgersi contro se stesso, rivolgendo il suo amore contro la sua giustizia (DCE n. 10). L’Eucaristia ci attira nell’atto oblativo di Gesù. Noi non riceviamo soltanto in modo statico il Logos incarnato, ma veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione (DCE 12). La fede, che prende coscienza dell’amore di Dio rivelatosi nel cuore trafitto di Gesù sulla croce, suscita a sua volta l’amore. Esso è la luce — in fondo l’unica — che rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci dà il coraggio di vivere e di agire. (DCE n. 39).

4. La fede in Cristo vivente è il principio del mio operare con amore a servizio dei poveri

L’attività caritativa della Chiesa mantenga tutto il suo splendore e non si dissolva nella comune organizzazione assistenziale, diventandone una semplice variante. (DCE 31). L’operatore della carità non deve ispirarsi alla ideologie del miglioramento del mondo, ma farsi guidare dalla fede che, nell’amore, diventa operante. Deve perciò essere persona mossa dall’amore di Cristo: persona il cui cuore Cristo ha conquistato con il suo amore, risvegliandovi l’amore per il prossimo (DCE n. 33; cf 31, b). Eviterà la tentazione dello scoraggiamento: si libererà dalla presunzione di dover realizzare, in prima persona e da solo, il necessario miglioramento del mondo. In umiltà farà quello che gli è possibile fare e in umiltà affiderà il resto al Signore. È Dio che governa il mondo, non noi (DCE 35).

5. Devo educare il mio cuore per saper vedere i bisogni dei poveri

Nel soccorrere i poveri è necessaria la competenza professionale, ma da sola non basta. Gli esseri umani necessitano sempre di qualcosa in più di una cura solo tecnicamente corretta. Hanno bisogno di umanità. Hanno bisogno dell’attenzione del cuore. Bisogna dedicarsi all’altro con le attenzioni suggerite dal cuore, in modo che i poveri sperimentino la loro ricchezza di umanità. Perciò, oltre alla preparazione professionale, l’operatore di carità ricerchi soprattutto la “formazione del cuore”, facendo quell’incontro con Dio in Cristo che suscita l’amore e apre l’animo all’altro, così che l’amore del prossimo non sia più un comandamento imposto per così dire dall’esterno, ma una conseguenza derivante dalla fede che diventa operante nell’amore (DCE n. 31, a).

6. La mia carità deve passare dal semplice ‘fare’ o ‘dare qualcosa’ ad una relazione di carità

 

La carità è sempre più che semplice attività: “Se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova” (1 Cor 13, 3). (DCE n. 34). L’azione pratica resta insufficiente se in essa non si rende percepibile l’amore per l’uomo, un amore che si nutre dell’incontro con Cristo. L’intima partecipazione personale al bisogno e alla sofferenza dell’altro diventa così un partecipargli me stesso: perché il dono non umilii l’altro, devo dargli non soltanto qualcosa di mio, ma me stesso. Devo essere presente nel dono come persona. (DCE n. 34).

7. Per vivere la carità devo farmi sempre più umile

L’operatore di carità non assume una posizione di superiorità di fronte all’altro, per quanto misera possa essere sul momento la sua situazione. Chi è in condizione di aiutare riconosce che, proprio aiutando, viene aiutato anche lui; non è suo merito né titolo di vanto il fatto di poter aiutare. Questo compito è grazia. Egli riconosce infatti di agire non in base ad una superiorità o maggior efficienza personale, ma perché il Signore gliene fa dono (cf DCE n. 35).

8. Per agire nella carità devo appropriarmi di una preghiera capace di contemplazione

 

È venuto il momento di riaffermare l’importanza della preghiera di fronte all’attivismo e all’incombente secolarismo di molti cristiani impegnati nel lavoro caritativo. Il contatto vivo con Cristo è l’aiuto decisivo per attingere sempre di nuovo forza nel servizio del povero. Chi prega non spreca il suo tempo, anche se la situazione ha tutte le caratteristiche dell’emergenza e sembra spingere unicamente all’azione. La pietà non indebolisce la lotta contro la povertà o addirittura contro la miseria del prossimo. Il tempo dedicato a Dio nella preghiera non solo non nuoce all’efficacia ed all’operosità dell’amore verso il prossimo, ma ne è in realtà l’inesauribile sorgente. (DCE n. 36. 37). Attraverso la sua partecipazione all’esercizio dell’amore della Chiesa, l’operatore di carità vuole essere testimone di Dio e di Cristo, e proprio per questo vuole fare del bene agli uomini gratuitamente (DCE n. 33). La carità non è in funzione del proselitismo, ma questo non significa lasciare Dio e Cristo da parte. L’operatore della carità sa quando è tempo di parlare di Dio e quando è giusto tacere di Lui e lasciar parlare solamente l’amore. E’ compito delle organizzazioni caritative della Chiesa rafforzare questa consapevolezza nei propri membri (DCE n. 31, c).

9. Per servire bene il povero mi educo a collaborare con tutti in ordine alla carità

Essendo interiormente aperto alla dimensione cattolica della Chiesa, l’operatore cristiano è capace di sintonizzarsi con le altre organizzazioni nel servizio alle varie forme di bisogno; ciò tuttavia senza smarrire il profilo specifico del servizio richiesto da Cristo ai suoi discepoli (DCE n. 34)

10.La carità è un compito senza fine che sa dialogare con la politica e la giustizia.

La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell’argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e prosperare. La società giusta non può essere opera della Chiesa, ma deve essere realizzata dalla politica. Tuttavia l’adoperarsi per la giustizia lavorando per l’apertura dell’intelligenza e della volontà alle esigenze del bene la interessa profondamente. La Chiesa vi contribuisce con la purificazione della ragione attraverso l’insegnamento della Dottrina Sociale (DCE n. 28 a). Il compito immediato di operare per un giusto ordine nella società è proprio dei fedeli laici, come cittadini dello stato, sotto la propria responsabilità. La carità deve animare l’intera esistenza dei fedeli laici e quindi anche la loro attività politica, vissuta come ‘carità sociale’ (DCE, n. 29). Tuttavia l’amore — caritas — sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo. Ci sarà sempre sofferenza che necessita di consolazione e di aiuto. Sempre ci sarà solitudine. Sempre ci saranno anche situazioni di necessità materiale nelle quali è indispensabile un aiuto nella linea di un concreto amore per il prossimo (DCE n. 28 b).

Conclusione

 

L’enciclica rappresenta per noi vincenziani una miniera da esplorare continuamente per tenere vivo il nostro modo di operare nella carità. Anche l’attività caritativa si può corrompere. Il Papa ci aiuta a riprendere in mano le coordinate della nostra vocazione ed a rinnovarci. Senza un cambiamento interiore, rileggendo la carità nella luce della fede, non possiamo sperare di fare molta strada nell’esercizo della carità. Questa enciclica è come la Magna Carta per la nostra vocazione vincenziana. Non possiamo non essere grati a Benedetto XVI di averci richiamato alla verità di ciò che più propriamente siamo come vincenziani: chiamati cioè ad esprimere l’amore di carità verso i poveri.


  E’ da notare chela fede è un modo di percepire il reale. La parola latina (fides), che la esprime, conserva la radice id, che, secondo un’etimologia accreditata, ha un parallelo nel verbo greco idein, che appunto vuol dire vedere.
(Roma 20-21 Gennaio 2007)

UN NATALE DI SOLIDARIETA’ VERSO L’UGANDA

Un Natale di solidarietà per i volontari della San Vincenzo che anche quest’anno hanno organizzato la consueta raccolta benefica a favore di Kisoga, un paese dell’Uganda. Si chiama appunto “Le galline di Kisoga, family farm” il progetto sostenuto dalla San Vincenzo. Si tratta di aiutare le popolazioni più povere mettendole in condizioni di mantenersi da sole. Gli aiuti saranno destinati a quelle famiglie che non possiedono un mezzo di sostentamento, ma hanno la volontà di mettersi in gioco, di impegnarsi in un lavoro che le aiuti a vivere ed educare i figli., Un microprogetto concepito in fase iniziale per alcune famiglie che costituiranno un modello per altre che  vorranno seguire il loro esempio. Negli anni scorsi, grazie a questa iniziativa, diverse famiglie assegnatarie degli animali, hanno adottato anche alcuni piccoli orfani del proprio villaggio, ritenendo di avere “troppo” e di potere  e di dovere aiutare anche chi era rimasto senza genitori. Nelle giornate di  sabato e domenica scorsa sono stati raccolti circa mille euro che verranno portati personalmente in Uganda da Anna Pontello, Aldo Pontello e Emanuela Cenzi, volontari  dell’associazione vincenziana. “Non abbiamo intermediari – precisa Anna Pontello – il 19 gennaio 2007 partiremo per Kisoga, dove con i nostri contributi compreremo galline, maialini, mucche, caprette da donare alla popolazione locale. Ci fermeremo un mese e così avremo modo di aiutare ad organizzare queste piccole fattorie familiari ed altri generi di attività per portare sollievo a questa popolazione che deve combattere ogni giorno contro la povertà e le malattie, come malaria, lebbra, Tbc ed Aids”. Chi ritenesse di aiutare la San Vincenzo, togliendo una briciola dal proprio esagerato Natale, può portare il proprio contributo presso la sede dell’associazione in corso Porta Novara. (s.r. Informatore Lomellino, 20 Dicembre 2006)

(s.r. Informatore Lomellino, 20 Dicembre 2006)

LA CASA DELLA CARITA’ OGGI APRE I BATTENTI

Pranzo di solidarietà nella struttura realizzata dal Gruppo Vincenziano

La Casa della Carità di C.so Porta Novara, fortemente voluta dal gruppo di volontariato vincenziano, è quasi pronta. Così oggi, in occasione del pranzo di solidarietà per raccogliere fondi con i sostenitori del gruppo, verrà utilizzato per la prima volta lo spazio comune al pian terreno, con una grande vetrina che si affaccia sulla strada. All’interno sono state recuperate le decorazioni ottocentesche sul soffitto: insieme al crocefisso della scultrice mortarese Rina Bonacasa contribuiscono a rendere l’atmosfera accogliente. Accanto, la cucina in acciaio, che potrebbe servire in futuro ad organizzare anche una mensa. Il recupero dell’immobile è stato graduale, ed ora è diventato la base operativa del gruppo che si occupa di assistenza alle fasce più deboli della popolazione. “ Il restauro dell’edificio è stato possibile grazie ai contributi della Fondazione Cariplo e della Regione – spiega il presidente del Gruppo, Maria Lice Comoglio – poi, è arrivata una mano da tutti, ed a poco poco siamo riusciti ad arrivare quasi al termine di questa impresa. Adesso vogliamo coinvolgere i giovani mortaresi in un’opera per gli anziani che ci chiedono sostegno. Chi ha i capelli bianchi non ha bisogno di aiuti economici, ma di qualcuno che dia una mano, lo ascolti, gli vada a fare la spesa. Per questo abbiamo bisogno di un’automobile usata che ci consenta di muoverci in libertà senza dipendere dall’uno o dall’altro”. Poco più in là il centro di ascolto, in cui vengono accolte le persone che hanno bisogno. “Non aiutiamo soltanto gli extracomunitari, ma anche un numero crescente di famiglie italiane: a volte sono mogli separate con figli a carico che da sole non ce la fanno, a volte sono nuclei familiari con situazioni drammatiche – continua – gli extracomunitari sostano fuori dalla porta, fanno confusione, quindi sono più visibili, mentre gli italiani sono più discreti. Ma questo non significa che non abbiano bisogno”. Poi, accanto, il magazzino in cui sono custoditi abiti, mobili, suppellettili e giochi donati dai cittadini che vengono distribuiti, insieme alle merci del banco alimentare ed ai medicinali del banco farmaceutico. Il GVV mortarese da un paio d’anni gestisce anche un servizio di fornitura di generi alimentari alle famiglie in difficoltà per conto del Comune con cui ha una convenzione. Al momento sono una ventina le persone che ricevono gli aiuti in sostituzione del vecchio buono comunale. E le famiglie di cui si occupa il GVV nel complesso sono molte di più, quasi duecento.

(da La Provincia Pavese, 12 Dicembre 2004, Simona Marchetti)

 

GEMELLAGGIO con Volontariato Vincenziano di KISOGA (Uganda)

Le galline di Kisoga - Family Farm

Il Volontariato Vincenziano di Mortara ha in corso un gemellaggio con il Volontariato Vincenziano di Kisoga (Uganda); nell'ambito di questo progetto, da tempo, partono dalla nostra città aiuti umanitari in favore della popolazione ugandese sotto forma di viveri, indumenti, medicinali per poter sopperire, almeno in parte, all'estrema povertà e alle malattie (AIDS,TBC,malaria, lebbra, . . . )che là imperversano. Ora, pensando ad un aiuto più duraturo nel tempo, il GVV di Mortara ha pensato a un progetto che aiuti le famiglie bisognose a raggiungere una forma di vita più dignitosa attraverso il lavoro in loco che le renda autonome e capaci di autogestirsi. A causa delle guerre che hanno imperversato nel Paese abbiamo preso coscienza che è utopistico portare avanti grandi progetti che rischiano di sperperare gli aiuti. La popolazione di quasi tutto il Paese è impoverita. La nostra idea di dare vita a "fattorie" e di incentivare il lavoro agricolo sono la sola cosa che giorno per giorno possa creare uno sviluppo stabile. Il microprogetto è stato concepito in una fase iniziale per alcune famiglie che costituiranno un modello e un riferimento per altre che vogliano seguire il loro esempio. Il progetto è infatti destinato a famiglie che non possiedono un mezzo di vita, ma hanno la volontà di mettersi in gioco, di impegnarsi in un lavoro che le aiuti a vivere e a educare i loro figli. questi microprogetti sono basati su piccole fattorie familiari (Family Farm) con vari tipi di animali: galline, maiali, mucche che in questa zona non trovano difficoltà a crescere. Nel periodo natalizio è stato inviato un messaggio di solidarietà ai mortaresi, chiedendo di donare una gallina, un maialino, una mucca a chi è meno fortunato di noi. Il GVV, con gli scout Agesci, ha allestito in P.zza Monsignor Dughera la "Tenda di Natale" dove ci si poteva rivolgere per l'adesione. Ed ecco i numeri della nostra "piccola fattoria familiare": la somma raccolta ci permette di acquistare 212 galline, 34 maialini e 3 mucche.forza, l'inizio è buono, ma si può fare ancora di più. Noi crediamo nella "Family Farm": è la strada giusta per rendere gli aiuti efficaci e aiutare una piccola fetta di mondo.

(da Bollettino Parrocchiale "Sotto la nostra Torre", Gennaio 2004)

 

POVERTA', IL RITORNO

Mortara: accordo con la San Vincenzo. Il Comune stanzia 5 mila euro per i cibi.

La povertà riaffiora ancora in città. Ne diventa un dato tangibile e quantificabile anche attraverso una delibera recentemente adottata dalla giunta comunale. L'amministrazione aveva in passato aiutato i poveri con dei "buoni sociali" di carattere economico. Ora ha deciso di cambiare strategia e ha stanziato 5 mila euro per una sorta di primo intervento alimentare che sarà sostenuto dal Gruppo di Volontariato Vincenziano (GVV).
La presidente dl sodalizio è Maria Lice Comoglio, che da anni si sta occupando dei poveri e degli emarginati della città. "Molti arrivano ed hanno bisogno di tutto - spiega - Ma le esigenze variano in continuazione. Ad esempio il dato più significativo dell'anno che stiamo per chiudere è l'aumento degli aiuti agli italiani, rispetto a quello che negli anni scorsi dovevamo fornire agli stranieri. Per citare dei dati statistici, nel 2002 abbiamo aiutato 122 italiano e 418 stranieri. Quest'anno invece gli stranieri sono in calo, mentre gli italiani sono in aumento consistente. L'anno non si è ancora chiuso, ma siamo intorno alle 200 persone italiane assistite". Il GVV di Mortara è formato da una ventina di volontari e da altri collaboratori. Ha accettato di firmare una convenzione col Comune per offrire un aiuto a coloro che hanno bisogno di un pasto. "Il sindaco e il nostro gruppo - spiega ancora Comoglio - nei prossimi giorni firmeranno una convenzione finalizzata ad aiutare i bisognosi. Lo scopo che vuole raggiungere il Comune è quello di affidare ad un'associazione specializzata l'intervento assistenziale per i poveri che hanno bisogno di un aiuto alimentare. E noi in questo caso, vista anche l'esperienza acquisita in questi anni, pensiamo di poterlo fare. Per ora non sarà possibile fornire il classico pasto caldo. Offriremo degli aiuti di pasta, riso, burro, olio e quanto necessario per una prima assistenza alimentare. Non è invece escluso che prossimamente riusciremo anche a fornire dei pasti caldi nella nuova struttura che stiamo realizzano in C.so Porta Novara". I venti volontari del gruppo e i collaboratori offrono anche un servizio di post scuola. "questo lo facciamo nella saletta di P.zza Monsignor Dughera, vicino all'oratorio di San Lorenzo - prosegue la Comoglio - ci sono molti bambini stranieri e poveri che dopo la scuola hanno bisogno di un poco di assistenza e noi la offriamo ". il Gruppo Vincenziano è anche impegnato in settori delicati e difficili come la pronta accoglienza, le donne maltrattate, le famiglie senza lavoro e senza casa, le pratiche di assistenza per i malati psichici. "in questi ultimi campi - racconta ancora la presidente - abbiamo sperimentato diverse tipologie di aiuti necessari, ad esempio, capita che qualcuno ci viene a cercare perchè in quel momento della vita non sà più dove andare. per lo più chi arriva a questa situazione è in una condizione disperata. Per quello che possiamo vedere noi per Mortara e per i comuni vicini la povertà è in aumento anche alla luce di questi nuovi risvolti." Il GVV di Mortara sta ristrutturando una casa, in C.so Porta Novara, 40. Al piano terra l'intenzione è quella di realizzare una sala mensa, negli altri locali è già attivo un "centro di ascolto". Qui i volontari sono intenzionati a portare "interesse e partecipazione". I soldi necessari sono molti, ma è anche vero che parecchia strada è già stata fatta e il gruppo è operativo. "Tutto quello che facciamo e che abbiamo fatto - conclude Comoglio - è il risultato della generosità dei mortaresi. Il nostro motore, però, è la Provvidenza".

(Bruno Romani, da Informatore Vigevanese, 27 Novembre 2003)

 

AI VOLONTARI VINCENZIANI 5 MILA EURO PER IL CIBO DESTINATO AGLI INDIGENTI

 

L'Amministrazione civica di Mortara ha sottoscritto una convenzione con il gruppo di volontariato vincenziano Aic Italia Onlus per la distribuzione di prodotti del banco alimentare a cittadini indigenti che gli verranno segnalati dall'ufficio municipale dei servizi sociali. L'accordo, sottoscritto dal sindaco Giorgio Spadini e caldeggiato dall'assessore alle politiche sociali Pinuccia Franchino Delù, ha durata per tutto il prossimo anno e prevede un esborso per le casse comunali di 5 mila euro, a fronte dei quali il gruppo vincenziano si impegna a fare avere gli alimenti avuti dal banco alimentare della Lombardia compresa la sezione lomellina alle famiglie povere mortaresi che ne faranno richiesta. L'iniziativa mira alla raccolta delle eccedenze alimentari e alla distribuzione delle stesse ai poveri e agli emarginati. Il banco alimentare si pone come il tramite ideale affinché l'eventuale spreco della filiera agroalimentare diventi ricchezza per gli enti assistenziali, ponendosi al servizio delle aziende del settore che abbiano problemi di stock e di eccedenze. Gli alimenti che vengono distribuiti sono prodotti integri e perfettamente commestibili che per diverse ragioni, legate alla stagionalità, al cambio di immagine o ad errori di programmazione della produzione, hanno perso valore economico e commerciale e sono destinati allo smaltimento. i prodotti raccolti e distribuiti vanno dalla carne in scatola a latte, yogurt, burro, formaggi, ortaggi e legumi, pasta secca, riso, pane, dolci, frutta, zucchero, uova, bevande e farine. Le aziende spesso scartano questi prodotti per difetti di confezionamento, legati a un'errata programmatura o a errori di stampa nell'etichetta, oppure perché concepiti come elementi di campagne promozionali non interamente realizzate, oppure ancora perché superati da nuove tecnologie di mercato. Il banco alimentare si incarica allora di raccogliere questi alimenti, e da qui il gruppo volontario Aic Italia Onlus reperirà i prodotti da distribuire alle famiglie mortaresi. Altra fonte di approvvigionamento del banco è la giornata nazionale della colletta alimentare, durante la quale i volontari del banco stesso invitano le persone che fanno la spesa nei supermercati ad acquistare alcuni generi alimentari per offrirli a chi ne ha bisogno. In Italia l'esperienza, fissata quest'anno per sabato 29 novembre prossimo, è iniziata nel 1997 con 1.600 tonnellate di prodotti raccolti per arrivare lo scorso anno a sfiorare le 5mila tonnellate di alimenti. Per ottenere il sostegno vincenziano gli interessati dovranno presentare domanda presso l'ufficio servizi sociali del Comune, cui spetta valutare l'esistenza dei requisiti necessari per potervi essere ammessi.

(da Informatore Lomellino, 26 novembre 2003)

 

BANCO ALIMENTARE INTESA TRA COMUNE E VOLONTARIATO

Distribuzione di cibo

MORTARA. Più cibo a chi ne ha bisogno. La convenzione, ormai in dirittura d'arrivo, tra l'assessorato ai servizi sociali di Fabrizio Giannelli ed il gruppo di volontariato vincenziano presieduto da Maria Lice Comoglio, sta portando ad un miglioramento nella distribuzione di generi alimentari tra la fascia di persone più indigenti.
"Abbiamo già cominciato con questo programma da qualche mese, anche se siamo ancora in attesa di una comunicazione ufficiale del Comune per definire la convenzione - spiega Maria Lice Comoglio - Noi già riceviamo donazioni di cibo, che poi integriamo con alcuni acquisti. Poi li distribuiamo direttamente, alcune volte anche a domicilio.
Viene offerta anche una fornitura mensile di generi alimentari a persone indicate dal Comune, che in precedenza riscuotevano ogni mese un buono, generalmente da 50,00 o 100,00 Euro, spendibile presso i negozi, Gli utenti sono sicuramente più soddisfatti poiché così il pranzo è davvero assicurato."
E lo spaccato della situazione sociale della nostra città mostra un generale peggioramento delle condizioni di vita: "Non assistiamo solo extracomunitari, ma anche italiani. Tanto che le persone indicate dal Comune sono solo i nostri connazionali. Anzi, è proprio il loro numero ad aumentare costantemente. Sono sempre di più i nuclei familiari che non ce la fanno ad arrivare a fine mese, e che quindi sono ben lieti di accettare il nostro aiuto."
Soddisfazione per la riuscita di questo progetto anche da parte di Fabrizio Giannelli: "Grazie a questo accordo siamo sicuri che chi riscuoteva il buono ora riceve solo ed esclusivamente cibo, più di quanto non ne avrebbe comprato con i nostri 50,00 Euro. E grazie all'utilizzo dei freezer, non si tratta più solo di pasta, riso o scatolette, ma si pensa anche a regalare verdure e carne. Inoltre non c'è più l'assegnazione del buono, che era anche umiliante per la somma esigua che rappresentava. Con quello che l'amministrazione risparmia - dice Giannelli - provvederemo a dare al volontariato vincenziano una somma annuale ancora da definire, tra i2 e 3 mila Euro."

(da La Provincia Pavese, 18 ottobre 2003, Simona Marchetti)

 

CONTRO LE POVERTÁ, AGIRE INSIEME

Intervista al responsabile della Casa della Carità - GVV di Mortara

Che cosa ci può dire della Casa della Carità a Mortara oggi?
A Mortara è una realtà concreta la Casa della Carità del Gruppo di Volontariato Vincenziano (GVV), associazione che si occupa di persone in difficoltà e disagiate.
Ci tengo a precisare che si tratta di una struttura ben organizzata, sulla scia di quanto San Vincenzo De Paoli già nel XVII secolo aveva pensato e concretizzato. Mi spiego meglio: l'utente viene accolto nel Centro di ascolto aperto presso la sede di Corso Porta Novara n. 40, sicuro di essere ascoltato con interesse e partecipazione da parte del volontario. L'indifferenza non abita alla Casa della Carità: ciascun problema, dai più piccoli a quelli più importanti vengono valutati singolarmente con attenzione, al fine di creare su ciascun utente bisognoso un "progetto" di risoluzione fattiva dell'immediato, ma soprattutto di crescita verso l'autonomia della persona e della famiglia.

Cosa offre alla cittadinanza la Casa della Carità?
Le nostre attività sono una conseguenza del monitoraggio dei bisogni effettuato sul territorio di Mortara e Comuni limitrofi. Attualmente il nostro impegno si dirige in varie direzioni: "sportello rosa" dedicato alle donne maltrattate; "il nostro domani" destinato a bambini e ragazzi che necessitano di trovare un ambiente pomeridiano accogliente che allenti la tenaglia della solitudine e accresca in loro l'autonomia anche a livello scolastico. A questi si aggiungono due progetti più recenti: quello relativo agli anziani, per lo più soli, a cui viene affiancata una persona specifica di supporto ai loro bisogni, di qualunque tipo essi siano; e quello relativo all'Uganda. Quest'ultimo è un gemellaggio tra le due sedi della San Vincenzo: a Kisoga, paese vicino alla capitale Kampala, stiamo inviando viveri, medicinali, vestiario ecc. Questo è solo l'inizio per un'idea più corposa che deve far maturare un'autonomia sufficiente alla sopravvivenza in loco di persone che attualmente sono davvero al limite della sopravvivenza.

Quali sono attualmente i maggiori destinatari dei vostri interventi?
Negli ultimi tempi abbiamo rilevato un incremento delle povertà nel tessuto sociale italiano, a dispetto di quanto la gente possa pensare: alla casa della Carità si rivolgono tante donne italiane che vivono una difficilissima situazione famigliare perché maltrattate o divorziate o "incaricate" di mantenere la famiglia in crisi. Mi spiego meglio: viviamo quotidianamente situazioni in cui la donna separata con figli non riesce ad arrivare a fine mese, oppure è costretta a vivere accanto a un marito alcolizzato che non è in grado di gestire l'economia domestica o, peggio, la picchia; a queste si aggiungono le problematiche relative a una famiglia in cui il marito ha perso il lavoro. A tutte loro si rivolge la nostra attenzione, suffragata anche dalla possibilità di gestire informazioni relative alle offerte di lavoro in tempo reale, distribuite grazie a una rete computerizzata che ci collega con il mercato del lavoro.
Non tutti, però trovano il coraggio di bussare alla nostra porta, anche solo per avere conforto: ecco allora che ci vengono in aiuto le segnalazioni di parroci, amici attraverso i quali riusciamo a far giungere qualche aiuto nell'anonimato.

Tutto questo richiede mezzi e un impegno economico non indifferente. Come fate?
Tutto quello che abbiamo fatto e facciamo è grazie alla generosità dei mortaresi e a motivazioni che siamo riusciti a creare, con i fatti, in enti e associazioni di diverso livello: il nostro è un lavoro capillare di coinvolgimento di strutture che godono di maggiore autorità sul territorio. Non possiamo dimenticare i nostri volontari, gente che ha deciso di vivere testimoniando il Vangelo. La Provvidenza poi è il motore.

Per rivolgersi alla Casa della Carità:
Tel. 0384-90832
e.mail: vincenziano@inwind.it
www.gvvaicmortara.it

(da Bollettino Parrocchiale "Sotto la nostra torre", Ottobre 2003, Simona Marchetti)

 

QUELLA DIVERSITA' A SCUOLA

Massiccia la presenza degli insegnanti elementari

Tutti uguali, tutti diversi. E' il titolo del corso di formazione tenutosi nei mesi passati a Mortara presso palazzo Cambieri e conclusosi lo scorso 10 Marzo. Voluto dal Gruppo di Volontariato Vincenziano di Mortara il collaborazione con il Centro servizi volontariato della provincia di Pavia, con la biblioteca civica di Mortara, con il Progetto intreccio e con il Comune di Vigevano, l'iniziativa ha visto una nutrita ed attenta partecipazione. Ottimo, dunque, il bilancio finale della proposta che ha visto la presenza di circa settanta iscritti. Un numero elevato che sta ad indicare come il problema della diversità culturale sia molto sentito anche a livello locale. L'impressione raccolta nel corso dei diversi incontri è che manchi ancora nel panorama lomellino un momento di confronto sul tema dell'inserimento degli immigrati nella società. Articolato in tre successivi incontri, il corso ha toccato temi come la situazione e l'inserimento a scuola di minori provenienti da altre culture, nonché atteggiamenti, giudizi e pregiudizi che la società sembra maturare nei confronti delle diversità. La maggioranza degli iscritti al corso si è rivelata essere costituita da insegnanti della scuola elementare di Mortara, personale coinvolto in modo particolare anche dal fatto di essere ogni giorno a contatto con allievi provenienti da realtà differenti. Grande il loro interesse, dunque, per le problematiche relative all'accoglienza e alla diversità linguistica, temi spesso difficili da affrontare senza mezzi idonei. Il corso mortarese ha avuto la grande dote di proporre e delucidare esperienze, anche complesse, provate da operatori del settore educativo impegnati in realtà maggiori. Così l'esperienza milanese ha potuto divenire base di partenza per cercare soluzioni operative concrete da sfruttare nel territorio. Il tutto grazie al ruolo del Gruppo di Volontariato Vincenziano di Mortara sempre più impegnato a favore dei piccoli.

(da Informatore Lomellino, 26 Marzo 2003, Fiorenza Temmel Bianchi)

 

CON "SPORTELLO DONNA" NASCE IL PROGETTO ROSA DEL GRUPPO VINCENZIANO

 

Il Gruppo di volontariato vincenziano scende in campo nell'azione comune di sensibilizzazione alla realtà della violenza verso le donne diffusa dal manifesto dell'Associazione internazionale della carità. E lo fa concretamente, realizzando presso la Casa della Carità, in Corso di porta Novara, lo "sportello donna". L'importante iniziativa è stata pensata e voluta dal sodalizio cittadino al fine di contribuire alla grande causa delle donne vittime di soprusi, di maltrattamenti, di umiliazioni o di incomprensioni. Lo sportello donna è attivo ogni mercoledì dalle 15 alle 18 (tel.0384 90832) ed è gestito da volontari. Questo nuovo progetto è svolto in stretta sinergia con le assistenti sociali del comune e di alcune associazioni e strutture esterne capaci di fornire accoglienza alle donne in difficoltà. Inoltre, in casi particolari, è in grado di fornire assistenza legale. "Anche nella nostra realtà abbiamo riscontrato diversi casi di maltrattamenti - spiega la responsabile cittadina del Gvv - sia di tipo fisico sia psicologico. Questo terribile fenomeno, soprattutto nei casi delle donne extracomunitarie, spesso è determinato dalle diverse culture". Il periodo più intenso di questa importante campagna di sensibilizzazione promossa dall'Azione internazionale di carità e dal Gvv è compreso tra il 25 novembre. Giornata internazionale contro la violenza alle donne, ed il 10 dicembre. Giornata dei diritti umani.

(da Informatore Lomellino, 4 Dicembre 2002, Roberta Vecchio)